Vanitas

Antonio de Pereda y Salgado - Sueño del caballero (1670)

Antonio de Pereda y Salgado – Sueño del caballero (1670)

Mi svegliai di soprassalto.

Un rumore, forse, o più semplicemente quella spiacevole sensazione di cadere nel vuoto, in sogno, che catapulta il cervello nello stato di veglia da un attimo all’altro, senza dargli il tempo di capire cosa stia succedendo. Quel tipo di sensazione che colora i pensieri di una sfumatura di precarietà e disorientamento pari a quella provata da un sonnambulo che si sveglia in mezzo a una scala, e non capisce non solo come ci sia finito, ma se la stesse salendo o scendendo.

Mi girai su un fianco, ancora intontito da quello strascico di sogno, e mi misi a sedere sul letto, come per raccogliere le forze necessarie ad alzarmi. Quando lo feci, pochi secondi dopo, una fitta al ginocchio mi fece chiudere un occhio e storcere l’angolo destro della bocca, ricordandomi di tutte le volte in cui avrei dovuto farci caso, a quella cartilagine consumata.

“Domani mi farò dare un’occhiata” pensai di sfuggita, riponendo quel pensiero in una mensola, in un angolo del cervello, già affollata di tante copie di quello stesso pensiero, tutte uguali, in piedi l’una accanto all’altra così come negli anni le avevo sistemate.

Certo però che quel giorno il ginocchio mi dava più fastidio del solito, tanto che feci i primi tre passi zoppicando leggermente, mentre seguivo il bordo del letto per andare verso il bagno.

E fu allora che qualcosa catturò la mia attenzione, facendomi sobbalzare per lo spavento.

L’immagine di un vecchio, di cui ero riuscito a distinguere solo i capelli bianchi e la postura storta, era stata colta di sfuggita dal mio sguardo distratto, con la coda dell’occhio.

“Macchè, sto ancora dormendo” pensai subito “Che ci fa un vecchio in camera mia?”

Mentre davo una spiegazione alla mia impressione di non essere solo in quella stanza vuota, però, non mi ero neanche reso conto di essermi fermato, in piedi davanti alla cassettiera, con una inspiegabile paura di voltarmi verso la mia sinistra, là dove mi era sembrato di vedere il vecchio. Riuscivo solo a sbattere stupidamente le palpebre, e a deglutire a fatica, mentre percepivo i capelli rizzarsi gelidamente sulla nuca. Dopo un po’ un’altra fitta al ginocchio mi riportò alla realtà, e scacciò via quell’insensato timore di fare un passo indietro e voltarmi, per controllare se effettivamente ci fosse qualcun altro nella stanza. Mentre mi voltavo pensai che probabilmente avevo avuto un attacco di paralisi notturna, uno di quei disturbi del sonno che mi avevano sempre affascinato, fin da bambino, che impedisce al cervello di controllare il movimento del corpo per qualche minuto, al risveglio.

“Sì però che io sappia succede quando si è ancora coricati, non quando uno si è già alzato” dissi senza accorgermi di pensare a voce alta. Era una cosa che capitava sempre più spesso, questa di esprimere i pensieri a voce senza rendermene conto.

La solitudine gioca brutti scherzi, a volte.

“O almeno questo è quello che diceva sempr…”

Le parole mi morirono in bocca. O meglio, fu il fiato a mancare improvvisamente, lasciandole prive di appoggio e facendole precipitare nel vuoto. E mentre precipitavano silenziosamente, un vecchio, altrettanto silenziosamente, mi fissava.

Doveva avere almeno ottant’anni, con i capelli bianchi, radi sulle tempie e sulla parte superiore della testa, e leggermente ingialliti. Una barba sfatta e intermittente ingrigiva un volto cascante, rugoso, segnato da quelle strane macchie che compaiono sulla pelle dei vecchi. Il collo sottile lasciava intravedere perfettamente i due grossi tendini, e in mezzo un incavo profondo, in cui avrebbe potuto trovare comodamente posto il pugno di un adulto. La pelle raggrinzita del petto, visibile dalla scollatura della canottiera, era molliccia e cascante, così come quella delle braccia smagrite. Ma quello che più mi paralizzava erano gli occhi. Scuri, profondi, eppure velati da una sfumatura liquida, come sono gli occhi dei vecchi, in cui la vita ha già iniziato a spegnere lentamente la propria scintilla. E mi fissavano.

Dietro al vecchio un letto sfatto, con lenzuola marroncine, sembrava conservare ancora la calda sagoma di chi ci aveva dormito. A fianco al letto un armadio, di un marrone più scuro delle lenzuola, con un’anta leggermente aperta. Non mi ero mai deciso a sistemarla, quell’anta maledetta, dal giorno in cui avevo forzato la chiave mentre lo chiudevo, rompendo la serratura.

“Domani gli darò un’occhiata” continuavo a ripetere, giorno dopo giorno, più o meno consapevole del fatto che quel domani non sarebbe mai arrivato.

Certo che quell’armadio e quel letto sembravano familiari. E un po’ anche quel vecchio.

Non mi ci volle tanto per recuperare quel po’ di lucidità necessaria per rendermi conto che stavo fissando la mia immagine allo specchio.

“Non è possibile” urlai con orrore, portandomi le mani al viso per tastarlo, in modo da avere una prova di quanto stavo vedendo. Il vecchio spalancò la bocca e la articolò come se stesse parlando, e seguì pari pari i miei gesti, come un mimo.

“Io non sono vecchio!! Cos’è successo?!” gridai poggiando le mani sulla cassettiera, sotto allo specchio, e avvicinando il viso alla mia immagine, esaminandola più da vicino. Il vecchio fece altrettanto.

“Non è successo niente. Sei invecchiato” disse una voce femminile alle mie spalle. Aveva uno strano accento: spagnolo, turco, o forse greco. E soprattutto un suono incolore, neutro, senza età nè particolari connotati.

Mi voltai di scatto, per vedere chi avesse parlato. Seduta sulla poltrona, nell’angolo della stanza opposto a quello del letto, c’era una donna.

Era vestita con un abito lungo bianco, di seta forse, con una larga cintura viola in vita e un velo sopra la testa, che ricadeva morbidamente sulle spalle scoperte. Il volto sotto al velo era bianco quasi come questo e come il vestito: una carnagione lunare, di una sfumatura eterea e quasi irreale, perfetta per quel viso di porcellana. Sarebbe sembrata una statua se non fosse stato per le parole che aveva appena pronunciato, e per il fatto che, mentre lo faceva, stava giocherellando con un filo di lana, sfilato da un rocchetto ai piedi della poltrona. Ne teneva l’estremità con la mano destra, e con la sinistra lo tendeva e lo lasciava andare, facendolo scorrere tra indice e pollice. In tutto questo mi guardava, o meglio sono sicuro che mi guardasse. Perchè in realtà non ebbi mai il coraggio di incrociare il suo sguardo.

La donna si alzò in piedi, posando il filo di lana sulla poltrona con una grazia e un’eleganza senza età. Dopodiché fece qualche passo verso di me, che la fissavo immobile, incapace di muovere un muscolo o di dire una parola.

“Tutti invecchiano, perchè non dovresti farlo anche tu?” disse quando fu abbastanza vicina da poter passare la punta del dito sulla mia spalla destra, seguendo la sporgenza della clavicola e della scapola, e pizzicando poi la pelle cascante del braccio all’altezza del gomito. “La pelle avvizzisce, i muscoli si atrofizzano, la cartilagine si consuma e le ossa si indeboliscono. Non c’è niente di strano, è il ciclo del tuo corpo che volge al termine”

Io ascoltavo esterrefatto. Le sue parole mi giungevano alle orecchie come dopo aver percorso chilometri, deboli e ovattate. Mi occorsero alcuni minuti per essere nuovamente in grado di parlare.

“Non è possibile, io non sono vecchio!” dissi con una nota di frustrazione nella voce, rendendomi subito conto dell’assurdità di una frase del genere. Aveva lo stesso raggelante suono che avrebbe avuto il dire “Io non sono morto”.

“Guardati allo specchio, puoi vederlo da te” rispose pacatamente la donna, passandomi alle spalle e poggiandosi alla cassettiera, al mio fianco. Non c’era ombra di scherno nella sua voce, nè di malizia. Era il tono neutro delle verità di fatto.

“Ma…ma…” farfugliai disperato, ipnotizzato dalla mia stessa immagine allo specchio. Il vecchio mi fissava incredulo, seguendo con lo sguardo i contorni del mio corpo sfatto. “Ma quando è successo?” fu l’unica cosa che riuscii a dire, nella confusione del momento.

“Nel tempo, come per tutti” rispose lei, issandosi sulle braccia e mettendosi a sedere sulla cassettiera.

“Il giorno in cui avresti dovuto farti controllare un acciacco dal medico, ma che hai preferito rimandare; il giorno in cui avresti dovuto fare una telefonata a quella persona che ti mancava, giusto per sentirne la voce, ma che hai preferito lasciar perdere; il giorno in cui avresti dovuto prendere una decisione importante per la tua vita, ma che hai fatto scorrere via senza farlo. In tutti quei giorni si nascondeva il tempo che ora ti rendi conto di aver perduto, e convinto com’eri di averne a sufficienza per fare tutte queste cose non ti sei reso conto che invece stava scivolando via”

Ormai le sue parole dovevano arrancare per arrivare alle mie orecchie. E quando alla fine ci riuscivano, erano troppo stanche per essere colte nella loro pienezza di significato, perchè affondavano in quella melmosa sensazione che aveva ottenebrato la mia coscienza. La sensazione di essermi reso conto che mentre rimandavo le piccole e grandi decisioni sul come vivere la mia vita, in realtà era la vita a vivere me.

Di colpo mi sentii investito da una stanchezza opprimente, che quasi mi piegava le gambe. Feci un lungo sospiro, fino a svuotare completamente i polmoni.

“A partire dal mio prossimo respiro” pensai, “comincerò a vivere la mia vita appieno”

“Ma prima ho bisogno di riposarmi un po’…solo un po’. Sono troppo stanco per farlo adesso” aggiunsi a voce alta, mentre mi voltavo e facevo qualche passo claudicante per raggiungere il letto.

La donna, che durante il suo discorso non mi aveva guardato in faccia, mantenendo lo sguardo fisso al soffitto, rimase immobile nella sua posizione, come se fosse intenta ad ascoltare il proprio respiro.

“Quando mi sveglierò sarò una persona diversa” dissi a voce alta, quasi a voler ufficializzare quel proposito “Non rimanderò più niente, mi concentrerò su ogni istante, non mi farò trascinare dalla corrente senza far nulla”

La donna, sempre in silenzio, scese dalla cassettiera, si avvicinò al letto e mi rimboccò le coperte con gesti lenti e misurati. Sembrava che avesse ripetuto quel gesto centinaia di migliaia di volte nella sua vita.

“Certo” disse dopo aver compiuto quei gesti senza tempo “Ora dormi, è tempo di riposare”

Si avvicinò alla poltrona, e dopo aver raccolto il filo di lana dalla seduta, si accomodò compostamente.

“Sì, hai ragione” dissi io, con la voce già impastata dal sonno “Sono veramente stanco. Domani sarà un gran giorno”

“Sì, Domani” fece eco la voce della donna, con una impercettibile velatura malinconica. Si chinò e prese un paio di forbici che giacevano a terra, a fianco al rocchetto di lana, per poi accingersi a tagliare il filo in un punto che sembrava aver accuratamente individuato, dopo averlo teso un’ultima volta tra le mani.

“Non mi hai detto come ti chiami” dissi prima che il sonno calasse su di me.

“Atropos”

Davide Ciscì, Copyright, tutti i diritti riservati

2 pensieri su “Vanitas

  1. penso che la passione per l’arte sia innata nelle persone, assolutamente spontanea, in cui ognuno trova un’emozione (chi la vuole trovare)…la tua ricerca è molto complessa e varia, soprattutto se ci si confronta con quello che tu vedi…la verità è tua, ma chiunque parla tramite l’arte corre il ‘rischio’ che ci sia qualcuno che intuisca la tua verità (non si può avere la presunzione di dire di averla capita..troppe variabili e troppe sfumature)…mi sento di dirti una cosa: non smettere di ricercare nell’arte te stesso e soprattutto non smettere mai di condividerlo…è interessante vedere attraverso i tuoi occhi fuori dagli schemi, contribuisci nel dare la possibilità di avere un’altra prospettiva 🙂

    • Grazie mille, fa piacere vedere che qualcuno spreca un po’ di tempo appresso ai miei vaneggi 😀 Cercherò di seguire il consiglio e di continuare a condividere le mie letture, sperando che magari qualcuno ci si possa ritrovare un po’

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